Il livello d’attenzione della medicina sportiva sui pericoli che possono occorrere nel corso di svolgimento di un’attività agonistica è ormai talmente elevato che i rari casi di decesso fatti riscontrare sui campi da gioco o sulle piste automobilistiche vengono prontamente ascritti all’ambito delle fatalità , sebbene, a posteriori, molti di essi possano venire considerati come evitabili col senno di poi.
Non fa eccezione il tragico caso della morte di Piermario Morosini, calciatore del Livorno accasciatosi in quel di Pescara quattro anni fa e subito divenuto oggetto di un’approfondita indagine relativa alle modalità e alle tempistiche con cui i soccorsi hanno tentato di tamponare una situazione poi rivelatasi irreparabile.
Al termine di una lunga battaglia legale, il Tribunale monocratico di Pescara ha condannato tre medici per omicidio colposo e relegato dunque la tragica scomparsa nel novero dei decessi che sarebbe stato possibile evitare, in caso di maggior attenzione da parte dello staff medico facente capo al 118 e dell’impiego tempestivo di mezzi utili a salvare la vita a Morosini, defibrillatore in primis.
Ad originare la condanna, comminata a carico degli imputati Molfese, Procellini e Sbatini, sono state le evidenze riscontrate in sede di autopsia che hanno evidenziato come Morosini si trovasse a soffrire di una cardiomiopatia artimogena e come l’arresto cardiaco occorso sul campo di Pescara richiedesse l’immediato impiego del defibrillatore, cosa che non avvenne secondo le modalità e le tempistiche previste dalle basilari norme sanitarie in termini di assistenza.
In attesa delle motivazioni della sentenza, che verranno rese pubbliche entro i 90 giorni, verrà dunque chiarito il fatidico dubbio relativo alla possibilità di salvare Mroosini o meno all’epoca dei fatti, sebbene, anche volendo credere alla massima buonafede dei medici, è difficile ormai ascrivere i decessi agonistici al semplice ambito delle fatalità e postulare l’esistenza di una sorta di tragedia inevitabile.
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