A causa di una serie di pregiudizi di tipo culturale e antropologico, i numerosi disturbi di tipo alimentare che incidono ogni anno sulla vita di milioni di persone sono rimasti per decenni rinchiusi nel disinteresse collettivo ed etichettati come comportamenti “devianti”, senza che si tentasse un’indagine più esaustiva sulle reali cause scatenanti di fenomeni come bulimia e anoressia.
Un’attenta disamina delle cause alla base del rifiuto del cibo, condotta negli ultimi vent’anni, ha in realtà evidenziato la presenza di meccanismi psicologici molto complessi, collocati ben oltre la sfera della generica “pazzia” e consentito di intervenire su un fenomeno che può essere reversibile solo se compreso fino in fondo.
Secondo una ricerca condotta da un’equipe di psichiatri italiani, capitanata dal dottor Santino Gaudio, a scatenare la patologia definita come anoressia sarebbe un’errata percezione del “sé” che trova anche nella dimensione tattile un fattore centrale, in grado di porsi ben oltre la tradizionale concezione della malattia che associa il rifiuto verso il cibo ad una semplice componente di tipo visivo.
L’anoressia influirebbe infatti sulle capacità di orientamento dei soggetti in modo molto simile a quello derivante da danni provocati da un ictus, con il risultato che le vittime della patologia non si troverebbe più in grado di stabilire le propria forma reale e le proprie dimensioni effettive, percependo al tatto il proprio corpo come una massa informe, dotata di dimensioni generalmente abnormi.
In sostanza, quando un soggetto anoressico sfiora il proprio corpo viene a crearsi un corto-circuito tra il tatto e il cervello che genera un‘elaborazione errata dei dati trasmessi e una distorsione delle dimensioni percepite, in modo del tutto simile a quello che accade in caso una lesione cerebrale vada ad inibire il nostro senso dell’orientamento.
La scoperta di quest’inedita dimensione legata all’anoressia ha consentito agli studiosi italiani di ipotizzare una linea di intervento programmatica attraverso la quale rieducare il cervello all’interpretazione dei segnali sensoriali attraverso la realtà virtuale: la possibilità di riconoscere immagini e forme simulate pare infatti in grado di riconciliare la frattura tra mente e corpo e di porsi come un’ottima terapia sostitutiva per l’anoressia; fenomeno anch’esso sempre meno virtuale e sempre più reale grazie al coraggio di chi ha provato a comprenderlo fino in fondo.
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